Ogni Fotografia Rappresenta Una Catastrofe.

La Camera Chiara di Roland Barthes.
So di essere esageratamente presuntuoso nel confrontarmi con questo testo “sacro” della fotografia,
e come se non bastasse sono anche convinto di aver capito il pensiero dell’autore, ed è per questo che spinto da questa mia vanità ho buttato giù queste righe.
Avverto subito gli esperti già preoccupati, che la maggior parte sono frasi riportate dal libro,
e per fortuna di mio c’è ben poco.
Ora che siamo tutti più tranquilli, continuate pure a leggere … se ne avete voglia.

La foto di Alexander Gardner ritrae Lewis Payne nella sua cella, mentre è in attesa della sua impiccagione per il tentato omicidio del segretario di stato americano.
Siamo nel 1865.

Lo scatto è scarno, ci sono pochissimi elementi, un muro, il condannato e delle manette,
ma proprio perché conosciamo la storia, sprigiona una carica emotiva che inquieta.
Non per niente Roland Barthes la usa per descrivere un elemento non riproducibile materialmente,
che non ha forma, ma “è presente in intensità; il Tempo”.
Il tempo oggettivamente lo possiamo misurare, calcolare, ma non possiamo riprodurlo fotograficamente.
Barthes soffermandosi sulla foto di Gardner dice,
“sta per morire. Io leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato”
E ancora,
“… io fremo per una catastrofe che è già accaduta.”
Ogni fotografia secondo Barthes rappresenta una catastrofe.
Nelle vecchie foto, nelle foto storiche, questo concetto arriva realmente a completarsi perché;
” vi è sempre una compressione del Tempo; è morto e sta per morire”

Con queste premesse l’autore di “La Camera Chiara” fa le stesse considerazioni sulla foto della madre morta poco tempo prima, e scrive; è morta e sta per morire.
Barthes viveva solo con la madre, ne era intimamente legato,
la sua scomparsa, fu per lui un enorme trauma e fu causa di grande sofferenza.
Orfano di padre fin da piccolissimo (aveva un anno) visse un rapporto unico, esclusivo, insostituibile
con la madre e quando morì fu come la fine del mondo …

 

Lei è Teresa Luigina (Gina) mia madre … o meglio la foto di mia madre, quando era giovane,
ha poco più di vent’anni, è vicino casa, riconosco il posto.
C’è un po’ di vento che le scompiglia i capelli, sorride leggermente, sembra felice.
In questo piccolo rettangolo di carta tutto è normale, non c’è niente di tragico,
ma preannuncia la “catastrofe” che accadrà, e nello stesso tempo so che è già accaduta.
Sono quasi cinque anni che mia mamma non c’è più e quando guardo la sua foto mi ritrovo
alla maniera di Barthes a pensare “questo sarà e questo è stato”

Per Barthes ogni fotografia racchiude dentro di se una tragedia.
Da grande semiologo qual’era ci rivela la potenzialità della fotografia,
la capacità di far affiorare sentimenti ed emozioni, accentuandoli
in relazione alla nostra sensibilità.
E’ una riflessione autentica specialmente quando osserviamo foto molto vecchie,
sappiamo già che il personaggio ritratto non c’è più, ma nello stesso tempo
riviviamo la tragedia o la catastrofe della sua scomparsa.
In ogni scatto viene congelato il tempo,
come se tutta la vita di una persona venisse riassunta, sintetizzata, nell’istante in cui
l’otturatore della fotocamera si è aperto e richiuso.
Mentre il tempo continua ad agire sulle persone e le cose,
l’immagine fotografica inizia una vita propria,
totalmente indipendente ed estranea ai soggetti ritratti e
assume senso e significato diverso a seconda delle persone che la osservano.

Forse qualche ragione ce l’avevano … o ancora ce l’hanno,
i popoli la cui cultura li porta a credere che la fotografia possa rubare l’anima.
Fotografare è come un rituale magico, un po’ una stregoneria,
naturalmente non ruba l’anima,
ma qualcosa alla fine porta via…